2014, visiting student at IRCAM Centre Pompidou Paris.

Here are some notes from back then.


Note dall’IRCAM

«It’s all about layered things and lies» (Oneohtrix Point Never)

Che posto è questo posto

Il governo francese spende migliaia di euro al giorno per mantenere funzionante e attivo l’Ircam. L’ha voluto il presidente francese Chirac, e ne ha commissionato la direzione a Pierre Boulez, la costruzione a Renzo Piano.

Incastrarsi malamente

Dodo – un quarantenne greco, compositore – ha lasciato a casa moglie e figli per tre settimane per venire qui e trovare la sua “final compositor identity”. Ho ascoltato il suo lavoro. Le sue idee sono completamente arbitrarie, non seguono alcuna necessità. Dodo si è incastrato malamente e inconsapevolmente in un posto limitatissimo, in attessa dell’après coup che gli svelerà qualche cosa di finale. Ha progettato un opera per perussioni orchestrali e bomboletta spray, con un messaggio politico, e un’installazione di colonne altoparlanti in un tempio greco. Non si può pensare che tutti gli elementi di un’opera debbano per forza finire nell’astratto, essere inafferrabili e per di più verso qualsiasi orecchio. Boulez faceva musica con le strutture, Berio faceva musica con le serie o con le altezze. Dodo con la bomboletta spray. Tutti quanti, anche gli inarrivabili, manipolano qualcosa come artigiani. Un lavoro puntuale su un singolo elemento dell’insieme. Dalle piccole cose si arriva alla big picture. Ma qual’è questo elemento, e cosa ne è di me me me io me io io me?
A Xenakis, quasi trentenne, fu consigliato da Olivier Messiaen di lasciar perdere lo studio dell’armonia e del solfeggio, e di riempire la sua musica con le fortunate e nobili cose della sua vita: la provenienza ellenica, l’architettura, la matematica. Anche Xenakis, con questa faccia da cadavere incorniciata in biblioteca, fa musica su qualcosa, e non fa musica in sé – se quest’espressione ha senso.

Alta definizione

Qual’è l’estetica che definisce questa generazione? In quale epoca vivono i compositori e gli artisti con cui sto condividendo questa esperienza? Quaranta anni fa, qui all’Ircam è passata una generazione di artisti che ha lasciato una eredità gigantesca, anche se è ambigua, complicata e nessuno la conosce davvero. In un certo senso, la cosa che più ho apprezzato stando qui è una specie di smascheramento delle forme più complicate di quella stessa eredità. Il linguaggio musicale che si è sviluppato in questo posto era antipatico ed elitario, ed oggi che ha perso ogni necessità diventa pure formale, se ripetuto con le stesse caratteristiche. Se ci si deve proprio appoggiare ad una forma canonica per limite o convenienza, almeno scegliamone una fatta per costruire qualcosa, e non per distruggerla. La nostra generazione – secondo una vecchia amica di Berio di cui non ricordo il nome – è la generazione dell’alta definizone. Lei, dai suoi 70 anni, lo dice a noi. Mi sembra che sia un po’ troppo orgogliosa di aver vissuto un epoca irripetibile nella musica. Vuole appiopparci un compito, quello di mettere a fuoco, dice lei, l’eredità del secondo novecento. Alta definizione significa che dobbiamo glossare e correggere e rivedere le cose dei maestri, perché abbiamo le tecnologie adatte per farlo. Ma i maestri cara Signora lavoravano partendo da elementi minimi, dall’intuizione – e già nell’elemento discreto e nell’oscillatore o nel pianoforte preparato c’è la poesia o la sua possibilità, quindi figuriamoci con i mezzi tecnici che abbiamo se non possiamo, o dobbiamo scovarla. Quindi va bene – fanculo l’espressionismo, la canzone, la voce libera, il punk, sono d’accordo – ma teniamoci almeno la libertà. Comunque sia, tutto quello che fanno in questo posto incredibile vive o muore assieme al post-modernismo. Robert Henke nei primi venti minuti di lavoro si è già incazzato un paio di volte. Una delle incazzature l’ha mirata ad un tizio – buono, allegro e forse un po’ deficiente – il cui progetto compositivo consisteva in una performance di musica per tape recorder (proprio nastro, un vecchio Revox), supportata da una proiezione video e delle ballerine. Henke ha accolto l’idea del Revox, che fa comunque sempre la sua porca figura (anche se l’ha definita “historical electronic music practice”) ma ha bestemmiato contro il resto, chiedendo spiegazioni sul concetto, sul nesso e sull’idea che avrebbe dovuto supportare questa baracconata. “It makes no sense, unless the concept itself is the contraddiction”. Ma ha ancora senso costruire un’opera sulla contraddiction?

Finalizzare
Per incidente si scopre nuova musica buona, e per incidente la si realizza. Una musica finita è un incidente nella pratica costante della musica in genere (cesura nel godimento dell’opera nell’opera, Lacan). Henke ha detto che lui lavora con scadenze serrate, o non riesce a focalizzarsi. Questo è vero per molti, ma assurdo per altri. La scadenza serve se c’è commissione, se qualcuno la richide, se la appunta. Il problema dell’arte non richiesta non si può liquidare in modo romantico (Freud lasciò la questione in sospeso, e le uniche parole spese sul drivedell’artista sono quelle relative alla funzione simbolica permutativa/sostitutiva della vendita – quindi già del successo – di un’opera). Per molte persone serve al contrario non irrigidirsi. Non lavorare per scadenze ma lavorare, soli, costantemente. O lasciar perdere. Nella stessa orribile direzione romantica vanno anche le seguenti: autoproduzione, autopromozione, raccolta ed esposizione virtuale eccessiva, biografomania, studio eterno, rompere le palle al mondo con le proprie bozze o esercizi. Per quanto riguarda la pratica musicale accademica, devo dire che è molto attraente ma che con una minima dose di fantasia si può riuscire a mistificare il plagio per brillanza. Le cose composte sembrano sempre esercizi, servono ad insegnare – e persistono elementi inascoltabili.

Logica

Nell’elettronica, prima ancora della musica, c’è un lavoro enorme di logica. Lo strumento che uso non ha forma, non ha gesto, non ha limiti fisici ma solo limiti tecnici. Apro il mio computer e posso costruire uno strumento diverso ogni volta che suono, spendendoci anni o pochi minuti. Quando si scrive musica in studio il problema può anche essere relativo. Ma dal vivo posso tranquillamente decidere che la mia esecuzione sarà una riproduzione meccanica, come nel cinema o nella letteratura. Oppure, e qui inizia un altro discorso, posso voler suonare il mio lavoro, e qui fra le mie opzioni ci sono la quantità, la qualità e la proporzione di ciò che suono rispetto a ciò che riproduco meccanicamente. La decisione sulla scelta dei parametri da controllare è una decisione artistica ma ha una parte propedeutica di tipo logico. Preparare e costruire il mio strumento significa riflettere e rispondere alla domanda che cos’è la mia musica? di cosa è fatta la mia musica? Costruendo il proprio strumento, il musicista si impone un limite, si vincola ad un gesto. Lo sforzo di far rientrare – almeno per un po’ di tempo – le proprie idee in questi limiti autoimposti è armonica con la tradizione che vuole l’arte nascere dalla ristrettezza delle possibilità piuttosto che dalla loro esplosione. Anche nella massima gradazione dell’esecuzione in tempo reale, il limite si impone sulla scelta delle cose che vanno fatte funzionare.

No vanità

La prassi dell’Ircam è che il compostiore o esecutore della dimensione elettronica di un lavoro musicale sia nascosto fuori scena. Rinuncia al gesto artistico, al gesto
dell’interprete. La situzione è paradossale perché, per la musica puramente elettronica, oggi è forse il primo momento in cui il compositore può interpretare la sua musica pur non avendo un diploma di strumento.

Patch

La patch è una componente tecnica che non ha equivalenti o metafore nel resto della musica. Non è propriamente né uno strumento, né una partitura, né una componente dell’opera. È una parte funzionale. È un pezzo dello strumento che posso rendere astratto e riempire di idee.

Stockhausen

Una volta hanno chiesto a Stockhausen di dire qualcosa sulla disumanizzazione dell’arte. Gli hanno detto che l’arte è destinata alla scomparsa poiché il materiale sociale che è essa è obbligata in un certo senso a sintetizzare è disumanizzato già in partenza. La risposta di Stockhausen è stata: avete paura di me poiché io sono oltre-l’Uomo. Era il 1972. L’anno dopo (o quello prima?) dichierarà molto seriamente, in una situazione abbastanza solenne, di esser nato su Sirio. Stockhausen ha sempre inteso la sua opera di artista come qualcosa di al di fuori del mondo, ingiudicabile con l’orecchio umano. Ma per quanto sia complicata è comunque musica ed è in questo mondo. La dichiarazione sul 9/11 come più grande opera d’arte della storia umana è un altro aspetto di questo suo assolutismo tedesco hegeliano e post-tutto. È l’idea di un istante che trafigge tutto e diventa il centro assoluto e certo del mondo.

Centre Pompidou, Parigi, luglio 2014